Troppo zinco nei cibi in scatola (tonno compreso) a causa del troppo zinco presente nelle scatole dei cibi? La risposta a questa domanda che sembra un gioco di parole è un sonoro “NO” proveniente dalla più autorevole autorità sanitaria del Regno Unito – il National Health Service (NHS), l’equivalente del nostro Istituto Superiore di Sanità. Un NO che ha chiuso il dibattito mediatico nel volgere di 48 ore. Ma ripercorrere le tappe di quella che, a tutti gli effetti, si è rivelata una fake news dopo aver occupato per giorni le cronache dei media britannici (ed essere rimbalzata su qualche organo di informazione italiano), aiuta a comprendere la pericolosità di certi meccanismi informativi che fanno leva sulla legittima sensibilità dell’opinione pubblica ai temi della sicurezza alimentare.
Alla fine del febbraio scorso esce sulla rivista “Food and Function” lo studio “Food packaging could be negatively affecting nutrient absorption in your body”, pubblicato da un gruppo di ricercatori della Binghamton University, università pubblica di New York. In esso si sostiene che le “cans” contenenti i cibi presentano nel rivestimento interno grandi quantità di nanoparticelle di ossido di zinco, che lo zinco si trasmette in tale forma dal contenitore al contenuto e, da qui, passa all’organismo umano e ne peggiora le capacità di assorbimento dei nutrienti alimentari modificando il DNA e il profilo proteico delle cellule dell’intestino.
Per arrivare a tale conclusione i ricercatori prendono in esame quattro tipologie di cibo in scatola, tonno, mais, asparagi e pollo, ne misurano attraverso una serie di complicati calcoli il quantitativo di zinco in esse presente, pari – a loro dire – a una misura più di 100 volte superiore alle dosi di assunzione giornaliera raccomandate dalle linee guida nutrizionali britanniche (9,5 milligrammi al giorno per gli uomini, 7 per le donne). Dopodiché espongono cellule umane in vitro al suddetto quantitativo di zinco per verificarne gli effetti sul loro funzionamento.
Com’è prassi in uno studio scientifico, le conclusioni sono caute, fanno largo ricorso al modo condizionale e terminano sollecitando ulteriori approfondimenti da parte di altri studi. Ma quando, dopo una quarantina di giorni, la ricerca viene rilanciata da alcuni siti anglosassoni di divulgazione scientifica, le sue conclusioni finiscono sui principali tabloid inglesi (Mail Online, Sun, Mirror) e perdono (quasi) tutte le cautele originarie: gli alimenti da quattro scendono a uno, il tonno in scatola, illustrato con grandi foto in versione pre e post confezionamento, e la “notizia” diventa la seguente: “Tinned tuna contains up to 100 times more zinc than is safe and could wreak havoc on people’s guts, study finds” (MailOnline, 10 aprile 2018).
La risposta della Metal Packaging Europe
La prima a reagire è la Metal Packaging Europe (MPE), l’organismo di rappresentanza delle aziende europee produttrici di packaging di metallo rigido: 85 miliardi di pezzi all’anno che, divisi per il numero di abitanti del Vecchio Continente, significano tre confezioni a settimana consumate da ognuno di noi. “Nel leggere lo studio – afferma MPE in un primo comunicato – emerge chiaramente come questo sia viziato dalla fondamenta, abbia grossolanamente sbagliato i calcoli del contenuto di zinco presente nei cibi in scatola esaminati e poggi su una serie di assunti del tutto infondati”. Ad esempio, continua MPE, “quando calcolano la concentrazione di zinco nel tonno in scatola al momento del suo consumo, gli autori parlano di un livello di 2.648 mg/kg; ma partendo dagli stessi dati presenti nello studio, ad un calcolo corretto la concentrazione effettiva risulta pari a 11,3 mg/kg”. 234 (duecentotrentaquattro) volte di meno.
Continua MPE: lo studio sostiene, senza alcuna prova, “che tutto lo zinco proviene dal rivestimento del contenitore, mentre sappiamo che il tonno fresco contiene circa 5 mg/kg di zinco”; assume che tutto lo zinco si trovi sotto forma di nanoparticelle di ossido di zinco, “senza offrire alcuna evidenza scientifica di tale assunto e senza neppure tentare di confermare la loro presenza nel cibo in scatola”; “non cita neanche un possibile meccanismo in base al quale tali nanoparticelle si trasferirebbero nell’organismo umano”; per determinarne i presunti effetti sull’organismo “è stato utilizzato un campione standard di nanoparticelle di zinco commerciale”, e non quello che proverrebbe dal cibo in scatola.
Infine, contrariamente a quanto sostenuto dallo studio, “l’ossido di zinco presente nel rivestimento interno del packaging di metallo non è utilizzato dall’industria per le sue proprietà antimicrobiche”, ma come “pigmento/additivo, pienamente approvato, per evitare l’antiestetica colorazione del substrato metallico con determinati alimenti proteici contenenti zolfo”.
La smentita della National Health Security. Il ritiro della ricerca
Il 13 aprile la NHS britannica pubblica sul proprio sito uno statement dal titolo: “Media reports about high levels of zinc in tinned tuna are based on flawed data”. La principale Autorità sanitaria pubblica del Regno Unito, dopo aver ripercorso le tappe principali della vicenda, si sofferma soprattutto su quello che chiama “un errore nei calcoli dei ricercatori”, mentre in realtà “i livelli di zinco sarebbero stati ampiamente nei limiti raccomandati”. Nel dettaglio, continua l’NHS, “i ricercatori hanno calcolato che in un pasto a base di porzioni medie di tonno e di asparagi in scatola sarebbero presenti 996 milligrammi di zinco. Invece, secondo i nostri calcoli, tale pasto ne conterrebbe 2,1 e non 996 milligrammi”. 474 (quattrocentosettantaquattro) volte di meno. In tal modo, conclude lo statement, “ci troveremmo entro la dose (di zinco) giornaliera raccomandata”.
Di fronte a questa presa di posizione ufficiale, il 18 aprile MPE pubblica un secondo comunicato (titolo: “Media reports on high levels of zinc in canned food are based on flawed data”) in cui ribadisce le proprie posizioni, sottolinea come queste siano state condivise dalla NHS e riferisce che la Royal Society of Chemistry (RSC), responsabile della rivista “Food and Function”, ha pubblicato una “Expression of Concern” sul contenuto del paper scientifico all’origine alla questione, avvertendo sull’inattendibilità dei dati in esso contenuti. “Ciò – commenta NPE – dovrebbe essere la prima tappa che porta al ritiro dell’articolo a causa delle sue falle (flaws)”. Sei giorni dopo, il 24 aprile, la RSC ha ritirato l’articolo.